Con la sentenza in commento, la Corte di giustizia aggiunge un ulteriore tassello al mosaico, oramai policromo e complesso, della nozione di comunicazione al pubblico, così come sancita dall’art. 5 della direttiva InfoSoc. Chiamata a decidere sulla questione pregiudiziale relativa all’interpretazione della nozione di “comunicazione e messa a disposizione al pubblico” in uno con quella di “copia privata”, si evidenzia tuttavia che, a fronte di un’ulteriore specificazione della prima, non vi siano sensibili passi in avanti rispetto alla definizione della seconda, la cui applicazione ai sistemi di cloud computing, come emergerà nel corso della trattazione, resta tuttora fonte di numerose ambiguità interpretative.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il contesto normativo e i fatti da cui origina la controversia. – 3. I precedenti tedeschi sui servizi di cloud computing in remoto. – 4. La decisione della Corte di giustizia. – 5. Quali scenari per il futuro?.
- Introduzione
Con la sentenza in commento, la Corte di giustizia aggiunge un ulteriore tassello al mosaico, oramai policromo e complesso, della nozione di comunicazione al pubblico, così come sancita dall’art. 5 della direttiva InfoSoc (direttiva 2001/29/CE).
Per la verità, i giudici del Lussemburgo – con una forzatura ermeneutica sulla quale si ritornerà nel prosieguo – virano dalla nozione di copia privata, che appare essere il reale oggetto della controversia, verso quella di comunicazione al pubblico, probabilmente interpretando in maniera strumentale l’oggetto della domanda pregiudiziale[1].
La decisione, peraltro, appare interessante anche in relazione ad un’altra circostanza: perché riguarda la conformità della normativa italiana (in particolare, gli artt. 71-sexies e 71-septies della l. 633/1941 sul diritto d’autore) alla disciplina comunitaria e perché, da un punto di vista strettamente comparatistico, si discosta da alcuni precedenti – che avevano coinvolto fornitori di servizi analoghi a quelli del caso in commento – resi dalla giurisprudenza tedesca.
- Il contesto normativo e i fatti da cui origina la controversia
La controversia vede contrapposti la RTI (Reti Televisive Italiane S.p.A.), una società italiana che produce e diffonde programmi televisivi sul territorio nazionale, e la VCast, una società di diritto inglese che mette a disposizione dei propri utenti un servizio di videoregistrazione, mediante la tecnologia cloud. Nel dettaglio la VCast consente agli utenti, previa la fornitura di apparecchiature hardware e software, di ottenere una registrazione dei programmi relativi alle emissioni delle reti televisive italiane, trasmesse per via terrestre e con libero accesso, tra cui i programmi la cui titolarità dei diritti è detenuta dalla società italiana.
Questi i fatti.
La VCast agisce innanzi al Tribunale di Torino al fine di ottenere una pronuncia che accerti la liceità dei servizi da essa forniti e, con la medesima domanda giudiziale, chiede, se del caso, che siano previamente interessate la Corte costituzionale, in merito alla questione di legittimità costituzionale dell’art.71-sexies, c. 2, della legge sul diritto d’autore, nonché la Corte di giustizia, sulla questione pregiudiziale interpretativa dell’addentellato normativo composto dalla direttiva InfoSoc (sulla nozione di comunicazione e messa a disposizione del pubblico[2] e sulla nozione di copia privata) e dalla direttiva sul commercio elettronico (per quanto riguarda la riconducibilità dell’attività in esame ai servizi della società dell’informazione, oltre che per l’eventuale applicazione del regime della responsabilità agli operatori intermediari).
A giudizio della società inglese, il servizio in questione sarebbe lecito e legittimo, giacché si limiterebbe a captare il segnale, trasmesso in chiaro dall’operatore televisivo e a memorizzare il contenuto selezionato dall’utente all’interno di uno spazio cloud acquisito dall’utente stesso presso un fornitore terzo. L’attività di registrazione e di fissazione su supporto del contenuto informativo selezionato, quindi, rientrerebbe nelle eccezioni di cui all’art. 71-sexies, atteso che la VCast fornirebbe il noleggio di un sistema di videoregistrazione da remoto e che i contenuti da registrare vengono selezionati e scelti dai singoli utenti, e di cui all’art. 71-septies, che ammette la videoregistrazione da remoto assoggettandola ad equo compenso.
In senso contrario, la società resistente deduce che il diritto di copia privata sarebbe nozione di stretta interpretazione e, quindi, non suscettibile di applicazione alla fattispecie; che gli artt. 12, 13 e 16 l.d.a. attribuirebbero a RTI il diritto esclusivo di riprodurre le opere registrate dalla VCast, nonché il diritto di comunicarle al pubblico, ritrasmettendole via cavo, e di fissarle su supporti; che, ai sensi dell’art. 5, c. 2, della direttiva 2001/29 e dell’art.71 sexies l.d.a. sarebbero da ritenersi illecite le attività finalizzate a riprodurre videogrammi effettuata da soggetti diversi da una persona fisica e per finalità commerciali, in difetto di autorizzazione del titolare.
Con ordinanza del 31 ottobre/2 novembre 2015, il Tribunale di Torino inibisce a VCast Limited il proseguimento della condotta e l’erogazione del servizio di videoregistrazione da remoto, nonché «l’ulteriore riproduzione, la messa a disposizione e distribuzione delle emissioni televisive di R.T.I.»[3].
Invero, come si avrà modo di puntualizzare, l’attività della VCast non abbraccia solo le emissioni televisive italiane, ma anche quelle di altri Paesi europei, motivo per il quale la liceità dell’attività della società, già in passato, ha interessato altra giurisprudenza nazionale (in particolar modo quella tedesca).
Per meglio comprendere la questione da cui origina la controversia, giova illustrare, preliminarmente, il quadro giuridico di riferimento, al fine di capire se l’attività di videoregistrazione, per mezzo di un servizio cloud, possa essere ricondotta nelle nozioni di copia privata e di comunicazione al pubblico.
L’art. 2 della direttiva 2001/29/CE[4] dispone che debba essere riconosciuto ad alcuni soggetti, elencati dalla norma stessa, «il diritto esclusivo di autorizzare o vietare la riproduzione diretta o indiretta, temporanea o permanente, in qualunque modo o forma, in tutto o in parte». Tale diritto è riconosciuto, tra gli altri, anche «agli organismi di diffusione radiotelevisiva, per quanto riguarda le fissazioni delle loro trasmissioni, siano esse effettuate su filo o via etere, comprese le trasmissioni via cavo o via satellite».
L’art. 5 della medesima direttiva introduce un’eccezione a tale regola, ammettendo la possibilità di trarre una copia privata dell’opera tutelata. La lett. b) dell’art. 5 prevede che gli Stati membri possano disporre eccezioni e limitazioni al diritto di riproduzione, per quanto riguarda «le riproduzioni su qualsiasi supporto effettuate da una persona fisica per uso privato e per fini né direttamente, né indirettamente commerciali a condizione che i titolari dei diritti ricevano un equo compenso che tenga conto dell’applicazione o meno delle misure tecnologiche di cui all’articolo 6 all’opera o agli altri materiali interessati». Il par. 5 dell’art. 5, invece, stabilisce che tali eccezioni e limitazioni siano «applicate esclusivamente in determinati casi speciali che non siano in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera o degli altri materiali [protetti]e non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare».
Le disposizioni in questione, a livello interno, sono state recepite con l’introduzione, nella legge sul diritto d’autore, degli artt. 71-sexies e 71-septies.
La prima delle due norme dispone che «È consentita la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, effettuata da una persona fisica per uso esclusivamente personale, purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali, nel rispetto delle misure tecnologiche».
Il c. 4 dispone che «la persona fisica che abbia acquisito il possesso legittimo di esemplari dell’opera o del materiale protetto, ovvero vi abbia avuto accesso legittimo, possa effettuare una copia privata, anche solo analogica, per uso personale, a condizione che tale possibilità non sia in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera o degli altri materiali e non arrechi ingiustificato pregiudizio ai titolari dei diritti». Tale previsione legislativa vale anche nel caso in cui siano utilizzate delle misure tecnologiche di protezione, come, ad esempio, i cc.dd. dispositivi anticopia[5].
Le norme anzidette sono completate dal c. 2, che afferma che la riproduzione non possa essere fatta da terzi: un profilo, come si discuterà in seguito, dirimente per la decisione in commento.
Descritta, seppur sinteticamente, la normativa sulla copia privata, giova evidenziare alcuni aspetti fattuali, al fine di individuare la disciplina giuridica concretamente applicabile al fatto.
Si è detto che la VCast consente la registrazione in remoto dei programmi televisivi cc.dd. in chiaro; lo spazio per la memorizzazione cloud è fornito da soggetti terzi[6]. Il servizio della VCast si limita a mettere a disposizione degli utenti i programmi registrati, offrendo servizi gratuiti (e limitati), ampliati (per mezzo della fruizione di messaggi pubblicitari) o a pagamento.
Gli utenti, per mezzo dei servizi della società fornitrice, possono acquisire anche video di emittenti televisive che non trasmettono nel Paese dove gli utenti stessi sono stabiliti (rectius: dove dimorano al momento dell’acquisizione del video).
- I precedenti tedeschi sui servizi di cloud computing in remoto
La Corte Federale di Giustizia tedesca (Bundesgerichtshof) si è pronunciata sulla legittimità dei servizi di registrazione in cloud computing di emissioni televisive[7].
La lettura dei giudici tedeschi è stata, in gran parte, differente rispetto a quella dei loro colleghi comunitari. Il punto di contatto, tra la decisione del Bundesgerichtshof e quella della Corte di giustizia è rappresentata dalla legittimità del servizio: la medesima Corte, in un precedente del 2009 (in realtà, si trattava di tre sentenze “gemelle”), era già giunta alla conclusione che il servizio fosse, di per sé, lecito, fino a statuire che «la persona che effettua la riproduzione è la persona che aziona tecnicamente la riproduzione, anche se ciò comporta un impiego di mezzi tecnici forniti da terzi»[8].
Il punto maggiormente interessante, in merito a tale aspetto, è costituito dall’asserzione della Corte secondo la quale dal momento che l’atto di riproduzione è materialmente compiuto dall’utente e non dal gestore del servizio online, quest’ultimo, laddove realizzato senza uno scopo di lucro e per finalità meramente personali, può rientrare nell’eccezione di copia privata di cui al § 53 della legge tedesca sul diritto d’autore (Urheberrechtsgesetz)[9].
Le sentenze gemelle del 2009 precisano, però, che la disposizione in questione non trovi applicazione laddove la registrazione sia compiuta da un servizio che, sebbene azionato dall’utente, agisca per finalità lucrative, anche indirette[10].
Orbene, l’affermazione principale, che allontana sensibilmente l’interpretazione della giurisprudenza tedesca rispetto a quella della Corte di giustizia è la seguente. A giudizio del Bundesgerichtshof, infatti, la circostanza che un servizio offra copie identiche a più soggetti non violerebbe il diritto esclusivo dei copyright holder di riprodurre copie dell’opera da mettere a disposizione del pubblico, così come previsto dalla § 19a dell’Urheberrechtsgesetz e dall’art. 3 della direttiva InfoSoc, a condizione che tali riproduzioni siano destinate all’uso personale degli utenti.
Tale asserzione, tuttavia, potrebbe essere, nei fatti, temperata dal fatto che, secondo i giudici tedeschi, la ritrasmissione contestuale e simultanea del segnale televisivo a più soggetti violerebbe il § 20 dell’Urheberrechtsgesetz e l’art. 3 della direttiva InfoSoc.
Ne consegue che da un lato, la giurisprudenza tedesca ha il pregio di aver chiarito la liceità dei servizi, che utilizzano la tecnologia del cloud computing, per la diffusione di musica e video (come, ad esempio, iTunes)[11]. Dall’altro, la medesima ha parzialmente anticipato le conclusioni della Corte di giustizia, adottando un’interpretazione restrittiva della condotta dei fornitori dei servizi di cloud alla luce della nozione di comunicazione al pubblico, imponendo un preventivo consenso da parte dei titolari dei diritti.
- La decisione della Corte di giustizia
Come si è detto, la decisione della Corte di giustizia si discosta radicalmente dall’opinione dell’Avvocato Generale: quest’ultima, infatti, si era concentrata sulla questione della copia privata (che, anche a parere di chi scrive, appare invero prevalente)[12]. La Corte, invece, scavalca del tutto il problema, sebbene richiami la normativa applicabile alla copia privata, concentrando l’attenzione sulla possibilità di ricondurre l’attività della VCast al concetto di comunicazione al pubblico.
Non sembrano esservi dubbi, per i giudici comunitari, sul fatto che la VCast si rivolga ad un pubblico indeterminato e sufficientemente ampio, atteso che «il fornitore di servizi di cui al procedimento principale registra le emissioni radiodiffuse e le mette a disposizione dei suoi clienti attraverso Internet»[13].
Allo stesso modo, vi sarebbe, secondo la sentenza, un atto di comunicazione al pubblico, inteso come «qualsiasi trasmissione delle opere protette, a prescindere dal mezzo o dal procedimento tecnico utilizzato».
Due sono gli aspetti significativi in relazione alla ricostruzione operata dalla Corte. Innanzi tutto, diversamente da alcuni precedenti, la sussistenza di un atto di comunicazione e la presenza di un pubblico sono considerati elementi cumulativi e non alternativi. In secondo luogo, il parametro adottato è quello della sentenza Reha Training, che, in passato, era stata raramente richiamata quale precedente[14]. Orbene, appare probabile che il richiamo sia determinato dalla similitudine tra l’oggetto delle due controversie[15].
La diversità di pubblico – in linea con i principi di cui alla sentenza ITV Broadcasting[16]– è rimarcata altresì dal fatto che i mezzi di trasmissione sono differenti: diffusione televisiva, nel caso delle trasmissioni della RTI, diffusione a mezzo internet, nel caso della VCast. Nel precedente in questione, infatti, si era affermato che, in caso di utilizzo di un mezzo di diffusione differente rispetto a quello originario, tale mezzo «deve limitarsi a mantenere o ad aumentare la qualità della ricezione di una trasmissione già esistente e non può essere utilizzato per una trasmissione diversa da quest’ultima»[17]. L’attività della VCast, a giudizio della Corte, non si limiterebbe alla fornitura di un servizio tecnico, ma rappresenterebbe, quindi, una ritrasmissione non autorizzata dalla società televisiva.
La sentenza, tuttavia, non sembra chiarire del tutto, al di là della singola fattispecie sottoposta al vaglio della Corte, se la disciplina della copia privata possa essere applicata o meno ai servizi di cloud computing. A parere di chi scrive, tuttavia, la decisione VCast può essere un punto di partenza interessante per definire alcune possibili fattispecie.
Difatti, i giudici comunitari hanno scisso la funzione di riproduzione rispetto a quella di messa a disposizione. La prima, evidentemente, copre servizi come quelli offerti, tra gli altri, da Dropbox o Google Drive, dove la finalità personale di riproduzione appare predominante. In senso contrario, potrebbe osservarsi che i medesimi servizi possano essere utilizzati anche per compiere atti di comunicazione al pubblico, nel caso in cui opere protette dal diritto d’autore siano condivise con soggetti terzi (ad esempio, altri utenti): non bisogna dimenticare, però, che, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, la nozione di pubblico deve essere intesa come ricomprendente un numero di destinatari ampio e non limitato[18].
Nessun problema, naturalmente, pongono i servizi che, pur utilizzando la tecnologia cloud, si limitano a mettere a disposizione degli utenti prodotti audiovisivi o musicali, sulla scorta di accordi di licenza con i titolari dei diritti e nei quali non v’è possibilità, per gli utenti, di compiere atti di riproduzione.
Nel caso, invece, dei servizi di riproduzione, sembra potersi ammettere, alla luce delle affermazioni della Corte, che gli stessi possano essere impiegati per le finalità di copia privata, anche nel caso in cui, per la riproduzione, siano utilizzati strumenti forniti da un soggetto terzo. Del resto, in tal senso, seppur relativamente ad una fattispecie analoga ma non identica, si era già pronunciata la Corte nella sentenza Copydan, dove si era espressamente ammessa la possibilità che i dispositivi adoperati fossero di proprietà di soggetti terzi[19].
Nel caso in questione, però, la società inglese non si limiterebbe a provvedere ad uno strumento per la riproduzione, ma anche a fornire accesso a contenuti oggetto di privativa industriale[20].
La distinzione, come dinanzi accennato, inciderebbe anche sull’area geografica di copertura delle trasmissioni che non coinciderebbe con l’ambito nazionale, ma, trattandosi di servizi via internet, non incontrerebbe confini territoriali.
Alla luce di tale rilievo, dovrebbe concludersi che i servizi di cloud computing, laddove si limitino al trasferimento “sulle nuvole” di una copia dell’opera, con un salvataggio di tale copia da parte dell’utente, sebbene con mezzi tecnici forniti da terzi, siano leciti e rientrino nell’eccezione di copia privata.
Nell’ipotesi di condivisione dell’opera anche con altri utenti – per mezzo delle funzionalità comunemente rese disponibili dai fornitori dei servizi di cloud computing – non si rientrerà nella comunicazione al pubblico, laddove i destinatari della condivisione non siano indeterminati e non rappresentino, comunque, un «pubblico considerevole».
Il discorso, però, sarà differente laddove la funzione di copia sia solo accessoria rispetto alla messa a disposizione di un pubblico, per l’appunto, indeterminato e considerevole (per riprendere la terminologia della Corte di giustizia).
- Quali scenari per il futuro?
Riassumendo il contenuto della decisione in commento, si può concludere che, a fronte di un’ulteriore specificazione della nozione di comunicazione al pubblico, non vi siano sensibili passi in avanti rispetto alla definizione di copia privata, la cui applicazione ai sistemi di cloud computing resta tuttora fonte di numerose ambiguità interpretative.
In altri termini, la Corte di giustizia non sembra aver fatto chiarezza sulla liceità dei servizi di registrazione in remoto: non si tratta di una valutazione critica, ma della semplice constatazione del fatto che le menzionate incertezze non possano essere rimesse tout court alla funzione vicaria della giurisprudenza. Negli ultimi anni, infatti, le numerose decisioni della Corte di giustizia sulla proprietà intellettuale (in generale) e sul diritto d’autore (in particolare) hanno dato vita ad un complesso intricato e, al contempo, troppo analitico di regole[21], determinando, forse, una progressiva assegnazione alla Corte di una funzione di vera e propria law-making e non di mera interpretazione del contesto legislativo esistente.
Si tratta di un fenomeno, di per sé, non nuovo[22], ma che, nel settore in questione, sta assumendo contorni preoccupanti, sul presupposto che una lettura eccessivamente rigorosa della disciplina legislativa comunitaria rischia di rappresentare un freno allo sviluppo di nuovi servizi tecnologici. Naturalmente, non si vuole invocare l’esistenza di una zona franca per i servizi internet, ma esclusivamente rimarcare che il contesto esistente rischia di frapporsi allo sviluppo di nuovi modelli imprenditoriali.
Le decisioni dei giudici comunitari hanno gradualmente caratterizzato, non senza revirement, talora anche vistosi, una nozione, quella di comunicazione al pubblico, che nasceva vuota di contenuti[23]. Nel corso del tempo, tuttavia, tale fenomeno sta crescendo in maniera ipertrofica, forse oltre le intenzioni del legislatore: non è un caso, infatti, che il testo in commento utilizzi indifferentemente i concetti di «comunicazione al pubblico» e «messa a disposizione del pubblico».
Allo stesso modo, non appare lecito attendersi dalla giurisprudenza – soprattutto a fronte delle recenti e rigide posizioni espresse dalla Corte di giustizia –una valutazione sull’opportunità, anche in termini di sviluppo economico e (per quanto si tratti di termine abusato) di innovazione, di frenare nuove forme tecnologiche optando per una lettura formalistica della normativa vigente. Difatti, potenziali critiche o proposte di riforma andrebbero formulate dalla dottrina – che, troppo spesso, si limita a fotografare le posizioni dei giudici comunitari – ed, eventualmente, recepite dai legislatori nazionali e comunitario.
In altri termini, non può dirsi che la sentenza sia il frutto di un errore interpretativo, né ancora che sia particolarmente sorprendente la sua ratio decidendi.
Tuttavia, ciò non esime dal segnalare che l’ampiezza dell’art. 3 della direttiva InfoSoc, per come interpretato, rischia di paralizzare il progresso tecnologico ed industriale anche in presenza di uno scarso interesse reale dei titolari dei diritti, i quali sono mossi unicamente dall’esigenza di mantenere uno status quo nelle modalità di fruizione dei prodotti televisivi.
Non si vuole certo sostenere che non debba essere riconosciuto un diritto ai soggetti che concorrono alla produzione di opere tutelate dal diritto d’autore; tuttavia, occorre operare un contemperamento tra gli interessi dei titolari dei diritti e quelli, generali, dell’evoluzione della web technology.
La sentenza VCast, quindi, dovrebbe essere letta non come l’apodittica affermazione dell’illiceità dei servizi di cloud computing, ma come decisione relativa ad un caso tipico, di cui si è tentato di tracciare le principali specificità.
Difatti, un servizio, come quello offerto dalla VCast, che limiti la propria funzionalità ad aree geografiche predefinite e coincidenti con quelle delle emissioni dei canali televisivi, eliderebbe, per mezzo di tale ostacolo, un primo profilo di illiceità.
In secondo luogo, la circostanza che l’utente abbia accesso ai contenuti direttamente, ad esempio utilizzando un apparecchio televisivo, non appare dirimente se solo si riflette sugli interessi che la direttiva InfoSoc va a tutelare.
In altri termini, se consideriamo che le trasmissioni sono in chiaro e non sussistono restrizioni all’accesso, che l’ambito territoriale coincide con quello di residenza (rectius: di fruizione del servizio) da parte dell’utente e che le società televisive non ottengono alcun beneficio patrimoniale dalla vendita degli apparecchi televisivi, allora dovrebbe ammettersi che non vi sia lesione di alcun interesse giuridicamente meritevole di tutela, atteso che non si vede in cosa si sostanzierebbe la lesione subita dai titolari dei diritti. Pertanto, la lettura dei giudici comunitari appare forse viziata da una dose eccessiva di formalismo, che risulta difficilmente comprensibile se si considerano le aperture della Corte medesima in alcuni precedenti casi relativi al diritto di comunicazione al pubblico.
Si pensi, in particolare, alla sentenza BestWater, dove la Corte di giustizia ha ammesso che un’opera resa disponibile dal titolare dei diritti, sulla rete internet, senza limitazioni di accesso, possa essere ripresa da altri siti internet, incorporandola all’interno del nuovo sito internet, per mezzo di un processo di embedding[24]. Appare palesemente incoerente ammettere che non vi sia nuova comunicazione al pubblico per l’intera rete internet – che ha una capacità di diffusione ben superiore rispetto al mezzo televisivo – e che tale limitazione, ossia un diverso pubblico, sussista nel caso in cui l’utente del servizio in cloud computing non abbia nella propria disponibilità un apparecchio televisivo che riproduce le trasmissioni che desidera registrare.
Analoghe considerazioni possono poi essere fatte per quella giurisprudenza della Corte che ha statuito che una comunicazione eseguita da un ente di trasmissione diverso da quello originario dev’essere considerata come effettuata ad un pubblico diverso dal pubblico cui è diretto l’atto di comunicazione originario dell’opera, ossia ad un pubblico nuovo[25]. Anche in questo caso, infatti, non si vede quale sia l’interesse dei titolari dei diritti o delle società televisive in caso di ritrasmissione di programmi ad accesso libero.
La deriva verso cui si sta indirizzando la Corte di giustizia (anche nella lettura fornita da parte della dottrina) risulta, in termini generali, rischiosa, giacché non tiene in alcuna considerazione il potenziale equilibrio tra gli interessi proprietari, che evidentemente appaiono preminenti, anche alla luce della Carta di Nizza[26], e le opportunità rappresentate dallo sviluppo tecnologico.
Probabilmente, un approccio più cauto, che circoscriva le affermazioni della Corte a singole fattispecie concrete e non pretenda di fornire soluzioni omnicomprensive per interi settori (come, nel caso che ci interessa, per il cloud computing), sarebbe da preferire.
[1] Tale aspetto è stato notato dai primi commentatori della sentenza; cfr. E. Rosati, The VCAST decision: how to turn a private copying case into a case about communication/making available to the public, in IPKat, 29 November 2017; J.P. Quintais – T. Rendas, Up in the Cloud: Some reflections on the CJEU judgment in VCAST, in Kluwer Copyright Blog, December 12, 2017. Queste le questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Torino: «a) Se sia compatibile con il diritto [dell’Unione] – in particolare con l’articolo 5, [paragrafo]2, lettera b), della [direttiva 2001/29](nonché con la [direttiva 2000/31]e con il Trattato istitutivo) una disciplina nazionale che vieti all’imprenditore commerciale di fornire ai privati il servizio di videoregistrazione da remoto in modalità cosiddetta cloud computing di copie private relative ad opere protette dal diritto d’autore, mediante un intervento attivo nella registrazione da parte sua, in difetto del consenso del titolare del diritto. b) Se sia compatibile con il diritto [dell’Unione] – in particolare con l’articolo 5, [paragrafo]2, lettera b), della [direttiva 2001/29](nonché con la [direttiva 2000/31]e con il Trattato istitutivo) una disciplina nazionale che consenta all’imprenditore commerciale di fornire ai privati il servizio di videoregistrazione da remoto in modalità cosiddetta cloud computing di copie private relative ad opere protette dal diritto d’autore, pur se ciò comporti un intervento attivo nella registrazione da parte sua, anche in difetto del consenso del titolare del diritto, a fronte di un compenso remuneratorio forfetizzato a favore del titolare del diritto, assoggettato sostanzialmente a un regime di licenza obbligatoria».
[2] Sui contorni delle due nozioni si rinvia a M.M. Walter, Article 3 Right of communication to the public of works and right of making available to the public of other subject-matter, in M.M. Walter – S. Von Lewinski, European copyright law. A commentary, Oxford, 2010, 975 ss.
[3] Trib. Torino, 2 novembre 2015, RG n. 9816/2015, inedita.
[4] Direttiva 2001/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, in G.U. 2001, l. 167, 10.
[5] Il diritto di apporre dispositivi anticopia è qualificato quale diritto potestativo da A. Musso, I diritti di proprietà intellettuale, in V. Zeno Zencovich (a cura di), La nuova televisione europea. Commento al «Decreto Romani», Bologna, 2010, 144.
[6] Sul punto, si vedano. le Conclusioni dell’Avvocato Generale Szpunar, 7 settembre 2017, par. 1: «Il cloud computing ha la peculiarità che, contrariamente alle modalità classiche di utilizzazione dell’infrastruttura informatica, l’utente non acquista né noleggia attrezzature informatiche concrete, ma utilizza, sotto forma di servizi, le risorse dell’infrastruttura appartenente a un terzo, la cui ubicazione non gli è nota e che del resto può variare. Dal punto di vista di detto utente, tali risorse si trovano dunque «da qualche parte nella nuvola» (non atmosferica, ma beninteso informatica). Una siffatta configurazione consente un miglior utilizzo delle risorse, nonché il loro adattamento automatico alle fluttuazioni della domanda».
[7] Bundesgerichtshof, 11 aprile 2013, disponibile all’URL: http://juris.bundesgerichtshof.de/cgi-bin/rechtsprechung/document.py?Gericht=bgh&Art=en&sid=f996d5640c310f861ed5bec68e07bbd2&nr=63981&pos=0&anz=1.
[8]Bundesgerichtshof, 22 aprile 2009, disponibile all’URL: http://juris.bundesgerichtshof.de/cgi-bin/rechtsprechung/document.py?Gericht=bgh&Art=en&sid=3c4de954a3bd3dd7f2431599eeaae906&nr=48879&pos=9&anz=12. Si tratta in realtà di 3 sentenze gemelle, relative ai seguenti procedimenti giudiziari: I ZR 215/06; I ZR 216/06; I ZR 175/07.
[9] Appare opportuno segnalare che la legislazione tedesca sulla copia privata e sul relativo equo compenso appare tra le più vantaggiose per i titolari dei diritti; cfr. M. Kretschmer, Private Copying and Fair Compensation: An Empirical Study of Copyright Levies in Europe, in Intellectual Property Office Research Paper, No. 2011/9, 16 ss.
[10] Dall’istruttoria, nel caso di specie, era infatti risultato che il servizio fosse gratuito per gli utenti, ma fosse finanziato dalla pubblicità presente sulla piattaforma informatica.
[11] F. Niemann, German Federal Court of Justice finds that without right holders’ consent online private video recording services are only legal in very specific circumstances, in Lexology, December 14 2009, disponibile all’URL https://www.lexology.com/library/detail.aspx?g=b6fca48b-e84a-4273-849a-ba357539bbad.
[12] Sul punto, per più ampi rilievi, si rinvia a T. Rendas, Cloud computing and copyright law: cloud-based video recording reaches the CJEU, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2016, 808.
[13] Cfr. punto 46 della sentenza.
[14] CGUE, C‐117/15, Reha Training (2016), punti 37, 38 e 39.
[15] Nel caso Reha Training, cit., la Corte di giustizia ha statuito che, in caso di diffusione di programmi televisivi attraverso apparecchiature installate in un centro di riabilitazione, sussiste la violazione dei diritti non solo degli autori, ma altresì di artisti, interpreti ed esecutori, nonché che tale diffusione costituisce un atto di comunicazione al pubblico ai sensi della direttiva InfoSoc.
[16] CGUE, C‐607/11, ITV Broadcasting (2013), punto 39.
[17] Per ulteriori approfondimenti sulla sentenza si rinvia a P. Di Mico, La ritrasmissione di opere su internet e la comunicazione al pubblico secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea, in Dir. aut., 2013, 293 ss.; nonché G. Morgese, La normativa internazionale ed europea sul diritto d’autore, in Com. Intern., 2014, 591 ss.
[18]CGUE, C‐117/15, Reha Training (2016), punto 41: «la nozione di “pubblico” riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto considerevole». Nello stesso senso, v CGUE, C-306/05, SGAE (2006), punto 36, dove si collega tale interpretazione con i Considerando 9 e 10 della direttiva InfoSoc: «Una tale interpretazione risulta del resto indispensabile per raggiungere l’obiettivo principale della detta direttiva, il quale, come risulta dal nono e decimo ‘considerando’, è quello di introdurre un livello elevato di protezione a favore, tra l’altro, degli autori, consentendo a questi ultimi di ottenere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro opere, in particolare in occasione di una comunicazione al pubblico». Per una critica all’impostazione dei giudici comunitari v. B. Hugenholtz – S.C. Van Velze, Communication to a New Public? Three reasons why EU copyright law can do without a ‘new public’, 47 IIC 797 (2016); nella dottrina italiana, v. A. E. Cogo, La comunicazione al pubblico negli alberghi, in AIDA, 2008, 503 ss.; N. Bottero, Le nuove prerogative d’autore nell’era di Internet, in M. Ricolfi (a cura di), Il diritto d’autore nell’era digitale, in Giur. it., 2011, 21 ss.
[19] CGUE, C-463/12, Copydan Båndkopi (2015). Nel caso di specie, si è ritenuto che i dispositivi di copia forniti da terze parti cadessero al di fuori dell’ambito di applicazione della direttiva; per un commento alla decisione, dove si rimarca anche il rapporto tra la pronuncia e i servizi di cloud computing, v. J.P. Quintais, Private Copying and Downloading from Unlawful Sources, in 46 Intern. Rev. of Intell. Prop.and Competition Law, 66, 2015.
[20] J. Smith – H. Newton – E. Thomas, CJEU rules that a cloud based service for remote recording is a communication to the public and so must obtain the rights holders’ consent, in Lexology, December 4, 2017.
[21] Cfr. da ultimo B.J. Jutte, Reconstructing European Copyright Law for the Digital Single Market Between Old Paradigms and Digital Challenges, Nomos/Hart, 2017, passim.
[22] Sul tema, in ottica generale, pare imprescindibile il richiamo a G. Calabresi, Common Law for the Age of Statutes, Cambridge, 1981; ma v. anche M. Peterson, Legislating Together, Cambridge, 1990.
[23] Sul punto, per una ricostruzione puntuale della giurisprudenza comunitaria, v. E. Rosati, GS Media and Its Implications for the Construction of the Right of Communication to the Public within EU Copyright Architecture, 54 Common Market L. Rev. 1221 (2017).
[24] CGUE, C-348/13, BestWater International GmbH c. Michael Mebes – Stefan Potsch (2014). La questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia nasceva in Germania da un’azione intentata da un’azienda produttrice di filtri per l’acqua, la BestWater, nei confronti di due agenti di vendita concorrenti, i quali avevano consentito ai visitatori del proprio sito internet di visualizzare mediante embedding un video realizzato dalla BestWater e disponibile sull’account YouTube di quest’ultima. Come noto, l’embedding consiste nell’incorporazione all’interno di un sito di un video originariamente diffuso su un’altra piattaforma (per esempio, YouTube), in modo tale che, a differenza di quanto accade con il linking, la visualizzazione dell’opera è possibile senza la necessità di abbandonare il sito che ha effettuato l’embedding; in altri termini, l’utente ha l’impressione che il contenuto appartenga al sito su cui sta navigando, mentre in realtà proviene da un‘altra piattaforma; peraltro, sono le stesse piattaforme di streaming, come YouTube, a consentire tale pratica attraverso il rilascio di appositi codici per l’embedding dei loro contenuti su altri siti internet. Il ragionamento seguito dalla Corte Ue per arrivare alla conclusione secondo cui l’embedding da YouTube non viola il diritto d’autore è che tale pratica non comporta una nuova e diversa forma di utilizzazione del contenuto “embeddato” nella misura in cui l’opera è comunicata allo stesso pubblico già preso in considerazione dai titolari dei diritti al momento di autorizzare la diffusione dell’opera sul sito di partenza (in questo caso, YouTube). In altri termini, se la comunicazione al pubblico sul sito originario deve considerarsi legittima in quanto autorizzata dai titolari dei diritti, allora non è necessario chiedere una nuova autorizzazione per “embeddare” ovvero “linkare” il medesimo contenuto su un altro sito internet; ciò in quanto una volta caricata su piattaforme come YouTube, l’opera è già disponibile senza limitazioni per la generalità degli utenti con l’espressa autorizzazione dei titolari dei diritti, i quali, quindi, hanno preso in considerazione l’intera platea di Internet come pubblico potenziale a cui l’opera può essere comunicata. Ovviamente il principio affermato dalla Corte non è applicabile nel caso in cui l’opera sia stata messa a disposizione del pubblico con delle limitazioni: per esempio accesso a pagamento ovvero restrizioni territoriali; in questo caso, la comunicazione a un pubblico diverso da quello originariamente preso in considerazione (negli esempi fatti, il pubblico pagante ovvero quello residente in un determinato territorio), comporta una nuova e diversa forma di utilizzazione che deve essere autorizzata dai titolari dei diritti.
[25] Il riferimento è a CGUE, C-306/05, GAE (2006), punto 42; ma v. anche CGUE C-117/15, Reha Training (2016), punto 46.
[26] Sulle radici del modello proprietario adottato in seno alla Carta di Nizza v. C. Salvi, La proprietà privata e l’Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 409 ss.