Nota a Corte suprema indiana, 24 agosto 2017
Il diritto alla privacy è un diritto fondamentale dell’uomo che trova riconoscimento costituzionale in quanto connaturato al diritto alla vita ed alla libertà personale tutelati dall’art. 21 nonché alle altre libertà garantite nella Parte III della Costituzione indiana, con espresso annullamento della precedente giurisprudenza contraria e vincolante.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso. – 3. I precedenti vincolanti. – 3.1. Il caso M P Sharma. – 3.2. Il caso Kharak Singh. – 4. Le motivazioni della sentenza. – 4.1. La privacy è un diritto naturale. – 4.2. Il superamento dei precedenti giurisprudenziali contrari. – 4.3. Il riconoscimento costituzionale del diritto alla privacy. – 4.4 L’essenza del diritto alla privacy. – 4.5. L’informational privacy. – 5. Riflessioni conclusive.
- Premessa
In data 24 agosto 2017, con una importante sentenza[1], la Corte Suprema dell’India ha riconosciuto che il diritto alla privacy è un diritto fondamentale dell’uomo riconducibile all’art. 21 della Costituzione indiana che tutela il diritto alla vita ed alla libertà personale ed alle libertà garantite dalla Parte III della stessa Costituzione[2].
La decisione è stata immediatamente definita, e può effettivamente essere considerata, storica perché, contestualmente all’enunciazione del principio di cui sopra, annulla la precedente giurisprudenza contraria e vincolante basata sulle decisioni M P Sharma e Kharak Singh risalenti, rispettivamente, al 1954 ed al 1962.
Pronunciata all’unanimità da un collegio di nove giudici, la sentenza è un provvedimento strutturato, analogamente alle pronunce della Corte Suprema statunitense, in una serie di motivazioni parallele: la majority opinion, che rappresenta la parte più lunga ed approfondita del provvedimento, è stata sottoscritta da quattro Giudici e dal Presidente della Corte, mentre le concurring opinion sono state redatte singolarmente da ognuno degli altri magistrati componenti l’organo giudicante.
Prima di esaminare le questioni giuridiche e le argomentazioni addotte in sentenza, pare opportuno fare una breve premessa in ordine alle caratteristiche principali del sistema giuridico indiano ed al funzionamento della sua Corte Suprema.
Nell’ordinamento indiano la Costituzione è fonte normativa primaria: entrata in vigore nel 1950, consta di ben 395 articoli ed otto allegati e si ispira a quelle di Stati Uniti, Canada, Australia ed Irlanda.
La Parte III tutela i diritti fondamentali; in particolare l’art. 21 sancisce che nessuno possa essere privato della vita o della libertà personale se non in forza di una procedura prevista per legge[3].
Il potere giudiziario, a cui viene riconosciuta piena indipendenza, è articolato, sul modello britannico, in tribunali di primo grado ed una High Court per ogni Stato federale ed una Corte Suprema dell’Unione a cui è attribuita una triplice giurisdizione: di ultima istanza sulla giustizia ordinaria, federale e costituzionale[4].
La Corte Suprema è costituita da giudici nominati dal Presidente dell’Unione indiana su proposta del Governo. Il Chief Justice che presiede la Corte è la terza carica della Stato, dopo il Presidente ed il Vice-presidente dell’Unione.
L’art. 141 della Costituzione prevede che il sistema delle fonti del diritto si debba conformare alla regola del precedente giudiziario vincolante, caratteristica degli ordinamenti giuridici di common law[5].
L’art. 348, comma 1, stabilisce che tutti i procedimenti e le decisioni della Corte Suprema e delle High Court, nonché gli atti dei Parlamenti dei singoli Stati e dell’Unione siano redatti in lingua inglese[6].
Una peculiarità dell’ordinamento giudiziario indiano, che vedremo essere un elemento fondamentale nella sentenza in commento, è che il numero dei giudici che compongono i collegi giudicanti non è predeterminato dalla legge, ma può variare a seconda di opportunità contingenti[7].
- Il caso
Il caso su cui si è pronunciata la Corte Suprema indiana con la sentenza in commento ha origine nel novembre 2012 con la presentazione di una public interest litigation da parte di un ex giudice dell’High Court dello Stato di Karnataka, K. S. Puttaswamy, contro il Governo indiano in merito al progetto pubblico Aadhaar[8], a parere del petitioner, privo di una valida fonte normativa di riferimento e lesivo della riservatezza dei cittadini.
L’Aadhaar è un codice identificativo univoco assegnato ad ogni soggetto residente in India che confluisce in un database creato e gestito dalla Unique Identification Authority of India (UIDAI), un’Autorità statale creata nel 2016 dall’Aadhaar Act 2016.
Nell’Aadhaar e sulla relativa carta confluiscono non solo le informazioni anagrafiche e demografiche del titolare, ma anche una serie di dati personali di natura biometrica; il suo utilizzo si è andato sempre più diffondendo nel corso degli ultimissimi anni interessando svariati settori ed enti pubblici fino a diventare, di fatto, un adempimento obbligatorio in quanto strumento indispensabile per l’accesso a determinati servizi o per l’ottenimento di determinati benefici.
Nel 2013 la Corte Suprema, prendendo una prima forte posizione nel procedimento de quo, emetteva un intermin order[9] in cui, ribadendo il fatto che l’Aadhaar era (ed è) un codice rilasciato su base volontaria, disponeva che nessun cittadino indiano potesse subire pregiudizi per il solo fatto di non possedere la carta Aadhaar.
Nell’agosto 2015 la Corte Suprema, riunita in un collegio composto da tre giudici, depositava un secondo order[10] in cui, ravvisando nell’implementazione del codice Aadhaar con dati biometrici una potenziale violazione del diritto alla privacy, chiedeva che la questione fosse sottoposta all’esame di un collegio più grande, la cui eventuale decisione favorevole al riconoscimento della privacy come diritto fondamentale potesse avere la forza giuridica necessaria a superare i due importanti precedenti giurisprudenziali vincolanti contrari, le sentenze M P Sharma e Kharak Singh.
Il 18 luglio 2017 un collegio presieduto dal Chief Justice, preso atto dell’importanza della questione sottoposta al vaglio della Corte Suprema e del fatto che le decisioni M P Sharma e Kharak Singh erano state emesse rispettivamente da un collegio di otto e di sei giudici, ordinava che la questione venisse esaminata da un organo giudicante composto da nove giudici[11].
- I precedenti vincolanti
Nella sentenza in commento la prima grande questione giuridica affrontata dalla Corte Suprema riguarda la presenza ostativa di due importanti precedenti giudiziari, vincolanti ai sensi dell’art. 141 della Costituzione indiana.
Si tratta di due sentenze dalla Corte Suprema capisaldi in materia di privacy: la prima, M P Sharma v. Satish Chandra, District Magistrate, Delhi, pronunciata nel 1954 e la seconda, Kharak Singh v. State of Uttar Pradesh, emessa nel 1962.
Entrambe sanciscono che la Costituzione indiana non protegge il diritto alla privacy.
Nel corso del procedimento in esame l’Attorney General, che rappresentava in giudizio l’Unione indiana, ha utilizzato la natura vincolante e le motivazioni di tali sentenze come argomento principe per sostenere l’insussistenza nell’ordinamento giuridico indiano di un diritto fondamentale alla riservatezza.
Per contro, i petitioner hanno sottolineato come tali precedenti dovessero essere considerati superati da una serie di successive decisioni favorevoli emanate dalla Corte in specifiche materie il cui unico limite era quello di non essere formalmente (per via nel numero dei giudici presenti nel collegio giudicante) idonee a ribaltare l’orientamento giurisprudenziale vincolante.
3.1 Il caso M P Sharma
Il caso portato avanti la Corte Suprema nel 1954 riguardava un procedimento penale nei confronti di una società in liquidazione che aveva, secondo l’ipotesi accusatoria, tentato di nascondere la sua reale situazione finanziaria ponendo in essere una serie di operazioni fraudolente e falsificando i registri contabili. Durante le indagini erano stati emessi regolari search warrant (decreti di perquisizione), in esecuzione dei quali erano stati sequestrati i documenti fiscali della società.
Alla Corte era stata sottoposta la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 96, comma 1, del codice di procedura penale indiano in materia di perquisizione e sequestro di cose e documenti con riferimento agli artt. 19[12] e 20, comma 3,[13] della Costituzione indiana. In particolare, era stato chiesto alla Corte di pronunciarsi in merito alla legittimità delle attività investigative di perquisizione e sequestro rispetto al divieto di auto-incriminazione costituzionalmente protetto.
La Corte aveva rigettato il ricorso osservando come i search and seizure warrant siano in ogni ordinamento espressione del potere coercitivo dello Stato volto a salvaguardare la sicurezza e l’ordine pubblico e, nello specifico, erano regolati da una disposizione di legge che l’assemblea costituente indiana non aveva ritenuto di dover sottoporre a garanzie costituzionali mediante il riconoscimento di un diritto fondamentale alla privacy, analogamente a quanto previsto dal IV Emendamento alla Costituzione statunitense.
La sentenza M P Sharma ha dunque affermato il principio secondo cui, in assenza nella Costituzione indiana di una disposizione equiparabile al IV Emendamento americano[14], nell’ordinamento indiano non può rinvenirsi alcuna protezione costituzionale del diritto alla privacy.
3.2 Il caso Kharak Singh
Il caso era stato portato innanzi alla Corte Suprema dal sig. Kharak Singh il quale, dopo essere stato imputato nel 1941 per una rapina a mano armata commessa con una gang (dacoity in diritto indiano), veniva prosciolto per mancanza di prove. Ciononostante, sulla base di un regolamento di polizia, le forze dell’ordine avevano redatto nei suoi confronti un history sheet (una scheda contenente informazioni personali dei criminali sotto sorveglianza) e lo avevano per anni sottoposto a sorveglianza regolare, comprese visite domiciliari notturne a sorpresa.
Kharak Singh aveva sollevato la questione di legittimità costituzione di tale regolamento con riferimento agli artt. 19 e 21 della Costituzione indiana.
La Corte, con sentenza emessa il 18 dicembre 1962, aveva dichiarato invalido il regolamento di polizia nella parte in cui prevedeva i controlli notturni per violazione dell’art. 21 della Costituzione. I giudici, richiamando antichi e consolidati principi giurisprudenziali anglosassoni (every man’s house is his castle), avevano riconosciuto l’inviolabilità del domicilio contro le intrusioni non autorizzate, facendo discendere il principio dalla “ordered liberty” garantita dall’art. 21 della Costituzione indiana.
Tuttavia, nel valutare la legittimità delle altre disposizioni del regolamento di polizia impugnato, tra cui la sottoposizione dei soggetti sorvegliati a questionari periodici, a segnalazioni da parte del personale delle forze dell’ordine ed al monitoraggio dei loro dei movimenti, la Corte riteneva che non fosse ravvisabile una violazione della libertà di movimento prevista dall’art. 19, né poteva essere ravvisata, come sostenuto dal ricorrente, una violazione della privacy in quanto diritto non espressamente garantito dalla Costituzione indiana.
- Le motivazioni della sentenza
Le motivazioni della sentenza in commento confluite nella majority opinion sono molto articolate ed analizzano nel dettagliato – invero con una sequenza logica non propriamente ineccepibile – non solo i due precedenti giurisprudenziali sopra menzionati, ma anche la Costituzione indiana, le legislazioni straniere e sovranazionali, la dottrina più accreditata in materia di privacy (prevalentemente statunitense). Nella seconda parte, stabiliti il principio secondo cui il diritto alla privacy può trovare tutela a livello costituzionale sebbene non sia espressamente prevista come diritto fondamentale nella Costituzione indiana, la Corte ne delinea il contenuto. Nella terza ed ultima parte, infine, con un intervento che potremmo approssimativamente paragonare alle sentenze additive di principio della nostra Consulta, la Corte Suprema indiana traccia le linee programmatiche che il legislatore dovrà seguire per regolamentazione correttamente il tema della privacy informazionale[15].
4.1 La privacy è un diritto naturale
La posizione del Governo indiano nel procedimento de quo partiva dall’assunto che nessun valore giuridico potesse essere attribuito ad un concetto tanto vago, incerto ed elusivo come quello di privacy[16].
Al fine di contrastare tale tesi, la Corte, dopo una breve introduzione sull’evoluzione del concetto di privacy a partire dalla aristotelica distinzione tra pubblico e privato fino ad arrivare agli studi di John Stuart Mill[17] e Warren e Brandeis[18], afferma con fermezza: «Privacy is a concomitant of the right of the individual to exercise control over his or her personality. It finds an origin in the notion that there are certain rights which are natural to or inherent in a human being. Natural rights are inalienable because they are inseparable from the human personality»[19].
La Corte prosegue sul tema dei diritti naturali sottolineando come essi non debbano essere riconosciuti dallo Stato poiché (pre)esistono in tutti gli uomini in quanto esseri umani, a prescindere da classe sociale, casta o sesso. Peraltro, i diritti naturali non sarebbero completi se non fossero affiancati dal concetto di inalienabilità.
In sintesi, secondo la Corte indiana, solo i diritti inalienabili naturali garantiscono agli esseri umani la piena autonomia, anche nei confronti dello Stato e, in questo senso, il diritto alla privacy è sicuramente da annoverare tra i diritti naturali dell’uomo.
Lungi dall’essere una mera petizione di principio, la qualificazione del diritto alla privacy come diritto naturale – ovverosia come un diritto che prescinde dall’intervento legislativo – è il primo strumentale tassello posto da Giudici supremi indiani a presidio della tesi sviluppata in sentenza secondo cui la tutela costituzionale della riservatezza non deve necessariamente essere ricondotta ad una esplicita previsione normativa primaria, potendo trovare protezione in diritti fondamentali già esistenti in Costituzione.
4.2 Il superamento dei precedenti giurisprudenziali contrari
Come visto, il principale vincolo giuridico ostativo alla proclamazione della privacy come diritto fondamentale era rappresentato dalla presenza nella giurisprudenza di riferimento di due importanti precedenti contrari.
Per superarlo, nella sentenza in commento, la Corte Suprema indiana ha cercato di dare un’interpretazione sistematica delle due pronunce alla luce dell’evoluzione culturale della società indiana e della più recente giurisprudenza in materia di privacy.
Partendo dal caso M P Sharma, la Corte osserva come l’enunciazione del principio secondo cui, in assenza di un esplicito diritto parificabile al IV Emendamento americano, non possa essere riconosciuto in India un diritto alla privacy a livello costituzionale, sebbene molto rigorosa, invero, è da considerarsi ultronea rispetto thema decidendum. I Giudici del ‘54, infatti, in motivazione, avevano escluso la violazione del divieto di autoincriminazione (art. 20 Costituzione indiana), in caso di esecuzione di decreti di perquisizione e sequestro, sulla base del fatto che questi ultimi sono atti coercitivi emessi ed eseguiti dall’autorità giudiziaria che non obbligano il soggetto indagato a tenere comportamenti o rilasciare dichiarazioni contra se: l’affermazione che alla privacy non debba essere riconosciuta una tutela costituzionale è stata dunque del tutto secondario ed inconferente rispetto alla questione di legittimità costituzionale sottoposta a giudizio.
Il principio a cui si è omologata tutta la giurisprudenza successiva è, dunque, un principio che è stato espresso in modo incidentale e senza i dovuti approfondimenti; soprattutto, scrive la Corte, i Giudici della sentenza M P Sharma non hanno esaminato (e quindi neanche escluso) l’ipotesi che la riservatezza possa essere un diritto costituzionalmente protetto da altre disposizioni che garantiscono diritti fondamentali, come l’art. 21 della Costituzione indiana.
In merito al caso Kharak Singh, invece, la Corte sottolinea come la sentenza non contenga nessun richiamo esplicito alla pronuncia M P Sharma. Le motivazioni della majority opinion in Kharak Singh sono, infatti, essenzialmente divise in due parti: la prima concerne l’illegittimità del regolamento di polizia sulle visite domiciliari notturne, mentre la seconda riguarda il resto del regolamento. Nella motivazione relativa alla prima parte (in cui è stata affrontata la questione sotto il profilo dell’inviolabilità del domicilio), i Giudici del ’62, pur non utilizzando mai espressamente la parola privacy, avevano tuttavia fatto riferimento alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Wolf v. Colorado del 1949[20], che si occupa del diritto alla privacy. Inoltre, nel dichiarare illegittimo il regolamento di polizia relativamente alle visite domiciliari notturne per violazione dell’art. 21 della Costituzione indiana, a parere dell’attuale Corte Suprema, i Giudici di Kharak Singh hanno dato un’interpretazione ampia del diritto alla libertà protetto dall’art. 21 che include il godimento di tutte le facoltà che afferiscono a tale diritto fondamentale.
Le difficoltà interpretative riguardano, dunque, solo la seconda parte della decisione in cui, con argomentazioni logicamente contrastanti rispetto a quelle enucleate nella prima parte, la Corte ha ritenuto legittime, per la dichiarata assenza di un diritto alla privacy costituzionalmente protetto, tutte le altre disposizioni dello regolamento di polizia impugnato.
Nei successivi cinquant’anni, trattandosi di precedenti formalmente insuperabili, la Corte Suprema ha cercato ragionevoli compromessi tra la forza vincolante delle sentenze Sharma e Sigh e le esigenze di tutela della riservatezza legate all’evoluzione socio-culturale del Paese, da un lato tentando di dare coerenza alle due contrastanti parti della decisione Kharak Singh e dall’altro cercando di ricondurre, ove possibile, il diritto alla privacy al concetto di “ordered liberty”.
Soprattutto negli ultimi tre decenni, la giurisprudenza della Corte ha sempre più spesso riconosciuto il diritto alla privacy come parte integrante del diritto alla vita ed alla libertà e delle libertà enunciate nell’art. 19 della Costituzione indiana: i casi riportati nella sentenza in commento sono numerosi e vanno da questioni attinenti alla pubblicazione di materiale relativo ad un condannato a morte (caso Rajagopal del 1994), alle intrusioni nella sfera privata da parte delle forze di polizia (caso PUCL del 1997), , alla divulgazione dello status di HIV (caso Mr X del 1998), alle preferenze alimentari (caso Hinsa Virodhak Sangh del 2008), all’interruzione di gravidanza (caso Suchita Srivastava del 2009), alle prove scientifiche nelle indagini penali (caso Selvi del 2010), alla divulgazione del contenuto di conti bancari accesi all’estero (caso Ram Jethmalani del 2001), fino ai diritti dei transgender (caso NALSA del 2014)[21].
Con l’evoluzione della società, il diritto alla riservatezza è stato sottoposto all’esame della Corte nei diversi contesti in cui si esplicano le scelte e l’autonomia delle persone e, man mano che nuovi casi venivano sottoposti al vaglio della Corte, sempre maggiore riconoscimento veniva dato al diritto alla privacy con riferimento agli svariati ambiti in cui si sviluppa la vita privata e prende forma l’identità dell’uomo.
Il problema fondamentale rimaneva però immutato: nessuno dei Collegi giudicanti degli ultimi anni era dotato della forza necessaria (a causa del numero dei giudici in collegio) per ribaltare i principi espressi nelle sentenze Sharma e Kharak Singh.
4.3. Il riconoscimento costituzionale del diritto alla privacy
Dopo aver dato riscontro che il diritto alla privacy, nonostante i due storici leading case contrari, ha negli ultimi anni sempre più trovato riconoscimento nella giurisprudenza indiana, la Corte Suprema affronta l’ulteriore passaggio relativo alla necessità o meno che una tutela costituzionale della privacy debba passare attraverso una modifica legislativa della Costituzione che la protegga espressamente con una norma ad hoc[22].
A tal proposito, la Corte rileva come, sebbene sia indubbio che i padri costituenti indiani, a loro tempo, avevano respinto la tesi che la privacy fosse un diritto fondamentale, da tale presupposto non possa discendere l’assioma secondo cui solo un intervento legislativo potrebbe emendare la lacuna normativa. In sentenza si legge che l’interpretazione della Costituzione non può essere congelata nel suo significato originale in quanto, come ogni Carta fondamentale, si è evoluta e si evolve continuamente per soddisfare le sfide del presente e del futuro.
Dai lavori dell’Assemblea Costituente, inoltre, in particolare dai dibattiti in merito ad aree specifiche quali la tutela della corrispondenza e la disciplina delle perquisizioni e dei sequestri, a parere dei Giudici supremi emergerebbe chiaramente come il concetto di diritto alla privacy fosse comunque stato considerato, sebbene indirettamente, come elemento integrante delle libertà poste a salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo.
La Corte sottolinea come il diritto alla privacy sia un elemento intrinseco della dignità umana ed abbia con esso un rapporto funzionale.
La privacy, infatti, garantisce ad ogni essere umano il diritto di condurre una vita dignitosa, proteggendo i più profondi recessi dalla personalità umana da intrusioni indesiderate.
La privacy garantisce ad ogni uomo piena autonomia ed il diritto di fare liberamente le scelte essenziali che influenzano il corso della sua vita.
Ma il passaggio logico veramente innovativo è quello successivo in cui la Corte sancisce che vivere una vita in dignità è essenziale per realizzare pienamente le libertà (liberties and freedoms, nel testo della sentenza) che costituiscono le pietre miliari della Costituzione.
Per riconoscere valore costituzionale alla privacy non è quindi necessario, stando alla Corte Suprema, creare un nuovo diritto fondamentale attraverso un processo di modifica legislativa della Costituzione.
E la Corte, nella sua funzione di giudice costituzionale, si autoriconosce non solo la competenza ma anche il dovere di definire la natura e l’estensione dei diritti alla luce dei diritti e delle libertà che sono costituzionalmente protette. La giurisprudenza degli ultimi decenni aveva già esercitato tale funzione individuando nell’art. 21 della Costituzione indiana un insieme di garanzie che proteggono diversi aspetti della dignità personale: l’art. 21, infatti, tutela la vita non solo nel senso materiale di esistenza fisica, ma comprende tutte quelle facoltà a cui la vita è correlata. Al contempo, l’interpretazione sistematica ed evolutiva degli artt. 14, 19 e 21 ha dato vita ad una giurisprudenza che riconosce l’interrelazione tra diritti fondamentali al fine di garantire tutela costituzionale ad ogni aspetto della vita sociale.
Osserva, infine, la Corte come in passato sia stato pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza che un diritto fondamentale ne possa ricomprendere o possa riflettere il valore essenziale di un altro, che in tal modo viene, di rimando, riconosciuto come diritto parimenti fondamentale[23]: con questa ratio è stato sancito che la libertà di espressione comprende la libertà di la stampa così come l’art. 21 comprende il diritto alla salute, il diritto di conoscere, il diritto a ricevere un’educazione e tutta una serie di diritti connessi al diritto ed alla procedura penale.
Il diritto alla privacy non è dunque un diritto fondamentale autonomo ed indipendente rispetto alle libertà garantite nella Parte III della Costituzione indiana, ma ne è espressione e trova ivi riconoscimento e tutela.
4.4 L’essenza del diritto alla privacy
Riconosciuto valore costituzionale al diritto alla privacy, la Corte si occupa di definirne il contenuto essenziale[24].
Riservatezza, si legge in sentenza, è innanzitutto right to be let alone, ovverosia la garanzia di uno spazio privato in cui esiste una legittima aspettativa ad essere lasciati soli.
Riprendendo i concetti di diritto naturale e dignità personale, la Corte scrive che la riservatezza è una innata prerogativa dell’autonomia dell’uomo ed incide sulla sua capacità di fare scelte e prendere decisioni sulle questioni più intime della vita umana.
Integrità del corpo fisico e sanità della mente possono esistere solo se ogni individuo possiede un inalienabile diritto a preservare uno spazio privato in cui la sua personalità possa svilupparsi senza condizionamenti esterni.
Riconoscere uno spazio di privacy significa dunque riconoscere ad ogni individuo il diritto di elaborare e realizzare la sua personalità; consente inoltre agli individui di preservare pensieri, idee, credi e qualsiasi preferenza od inclinazione personale contro esigenze sociali di omogeneizzazione: «Individual dignity and privacy are inextricably linked in a pattern woven out of a thread of diversity into the fabric of a plural culture»[25]. La privacy è dunque un postulato della dignità umana.
Ma, come visto sopra, la Corte va oltre il diritto alla dignità personale affermando che, a sua volta, la dignità è inseparabilmente intrecciata con la libertà personale: solo la garanzia di uno spazio protetto, infatti, consente all’uomo di realizzare appieno la sua vita e le sue libertà.
Libertà è, invero, un concetto più ampio di privacy, ma se è vero che non tutte le libertà possono essere esercitate in privato, è altresì vero che alcune possono essere soddisfatte solo preservando uno spazio privato personale.
4.5 L’informational privacy
La Corte, dopo aver enucleato l’essenza del diritto alla privacy nella sua accezione tradizionale, dedica uno specifico capitolo al tema dell’informational privacy, ovverosia quell’ambito della privacy tradizionale che si sovrappone alla protezione dei dati personali e che in India non è oggetto di una specifica legislazione ordinaria, sebbene vi siano degli studi e dei progetti normativi al riguardo.
Il lavoro della Corte in questo ultima fase argomentativa è quello di delineare, alla luce del riconoscimento costituzionale del diritto alla privacy, i principi dovrebbero essere rispettati nella futura regolamentazione normativa della data protection.
«Ours is an age of information. Information is knowledge. The old adage that “knowledge is power” has stark implications for the position of the individual where data is ubiquitous, an all-encompassing presence»[26].
Con un incipit che sublima in due sole righe il concetto e le problematiche della società dell’informazione, i Giudici supremi indiani affrontano il tema della tutela dei dati personali partendo da un resoconto fattuale delle ripercussioni sociali legate all’avvento di Internet per poi passare ad un’analisi dell’impatto della c.d. rivoluzione digitale sui diritti della persona.
Riprendendo il pensiero di Christina P. Moniodis[27], la Corte rileva come sia la particolare natura delle informazioni a causare i complessi problemi della privacy digitale. Le informazioni, infatti, sono nonrivalrous, invisible and recombinant: con il primo aggettivo si intende l’attitudine delle informazioni (rectius, dei dati) ad essere usati simultaneamente da molti utenti; con il secondo si intende la caratteristica dei dati di essere accessibili, memorizzabili e diffusi a grandi velocità all’insaputa dei soggetti interessati; con il terzo, infine, si intende il fatto che i dati raccolti possono essere utilizzati, analizzati e combinati insieme (data mining) per creare output di dati diversi e tendenzialmente maggiori dei precedenti.
Citando Yvonne McDermott[28] e Daniel J. Solove[29], la Corte prende poi in considerazione le sfide della privacy informazionale connesse all’uso di big data e dati aggregati, specificando che le più serie minacce di lesione della riservatezza dei cittadini provengono non tanto dalle politiche economiche delle imprese private, ma dagli apparati statali che stanno plasmando delle società sempre più sorvegliate (dataveillance society).
A fronte di tutte queste problematiche, secondo la Corte, qualsiasi regolamentazione della data protection dovrà essere condotta avendo come obiettivo quello di trovare il giusto equilibrio tra i legittimi interessi dello Stato da un lato ed il diritto individuale alla tutela della privacy dall’altro.
In particolare, ogni futura disciplina legislativa dovrà tenere conto del fatto che la Corte, con la sentenza in commento, ha definito la privacy come un elemento sostanziale del diritto alla vita e alla libertà personale di cui all’art. 21 ed un valore costituzionale incarnato nelle libertà fondamentali incorporate nella Parte III della Costituzione indiana.
Tuttavia, il diritto alla privacy, come il diritto alla libertà personale a cui afferisce, non è assoluto e dovrà comunque rispettare il principio della “ordered liberty”, nel senso che le limitazioni che possono incidere sul diritto alla vita e la libertà personale dovranno operare anche sul diritto alla privacy.
Alla luce di tali principi, a parere dei Giudici supremi, laddove l’Unione indiana decidesse di legiferare in tema di tutela dei dati personali, dovrà essere messo in atto un sistema che soddisfi tre presupposti minimi che derivano dall’interdipendenza dei diritti fondamentali di cui il diritto alla privacy è espressione: 1) innanzitutto, qualsiasi limitazione del diritto alla privacy (informazionale e non) dovrà essere prevista per legge atteso che l’art. 21 della Costituzione indiana prevede che nessuno possa essere privato della vita o della libertà personale se non in conformità ad una procedura stabilita per legge; 2) qualunque limitazione del diritto alla privacy dovrà soggiacere al principio di necessità, inteso come perseguimento di un legittimo scopo statale, atteso che l’art. 14 della Costituzione indiana costituisce una garanzia contro azioni arbitrarie dello Stato; 3) qualunque limitazione del diritto alla privacy dovrà, infine, rispettare il principio di proporzionalità, nel senso che i mezzi adottati dal legislatore dovranno essere proporzionali rispetto all’oggetto e agli obiettivi della legge, essendo la proporzionalità, al pari della necessità, un requisito di garanzia contro azioni arbitrarie dello Stato.
- Riflessioni conclusive
La sentenza in commento possiede tutti i requisiti per essere considerata un caposaldo in tema di diritto alla privacy: sicuramente in India per l’importanza del Collegio giudicante che darà alla decisione una duratura forza vincolante, ma anche all’estero tenuto conto dell’ampio ventaglio di dottrina e giurisprudenza citate, delle argomentazioni svolte e dei principi fissati.
Tre, a parere di chi scrive, sono gli spunti di riflessione interessanti da esportare.
Il primo concerne l’affermazione del principio secondo cui la privacy è sì espressione del diritto alla dignità personale, ma quest’ultima non va intesa staticamente ed autonomamente, bensì come elemento funzionale al pieno esercizio delle libertà fondamentali.
La trasversalità della privacy rispetto alle libertà fondamentali ed il suo riconoscimento come espressione delle stesse, lungi dall’essere una soluzione di ripiego dettata dalla necessità di trovare una fonte costituzionale ad un diritto ivi formalmente non tutelato, è la migliore interpretazione in termini di effettiva tutela del diritto stesso.
Per comprendere l’importanza del concetto basti pensare al fatto che la giurisprudenza italiana, attraverso la riconduzione della riservatezza sotto l’egida dell’art. 2 della nostra Costituzione italiana che tutela il diritto alla dignità personale, ha di fatto sottratto a tale diritto (ed alla protezione dei dati personali che ad esso viene ricondotto), le garanzie della doppia riserva di legge e di giurisdizione previste a tutela delle nostre libertà fondamentali con conseguente minore efficacia concreta della sue protezione costituzionale.
La seconda osservazione riguarda la spiccata sensibilità dimostrata dalla Corte indiana nei confronti dell’informational privacy che non viene considerata un diritto diverso ed autonomo rispetto alla privacy, bensì una moderna declinazione della stessa.
Tale classificazione ha consentito alla Corte Suprema di applicare tout court anche alla data protection, come alla privacy tradizionale, le garanzie costituzionali previste per i diritti fondamentali.
È una scelta ambiziosa ed innovativa.
Il parallelo con la giurisprudenza nostrana è svilente. Le sentenze dei nostri Giudici superiori, sia di legittimità che costituzionale, infatti, faticano enormemente a riconoscere e conseguentemente a tutelare le libertà fondamentali attinenti a corpo, domicilio, comunicazione e corrispondenza nella loro accezione digitale: sul punto si pensi, ad esempio, alla ridotta tutela dei diritti fondamentali dei cittadini in tema di videoregistrazioni non comunicative, GPS tracking e captatori informatici.
Il terzo ed ultimo spunto investe un particolare paragrafo[30] della sentenza in commento in cui la Corte, in risposta ad un’eccezione del procuratore generale che aveva sostenuto che il diritto alla privacy non sarebbe applicabile allo Stato sociale, specifica che la privacy non è un privilegio per pochi.
I Giudici indiani rigettano in modo tranchant la tesi che la privacy sia un costrutto elitario che va tenuto distinto dai bisogni e dalle aspirazioni della stragrande maggioranza dei cittadini ribadendo che neppure il nobile perseguimento delle disposizioni programmatiche previste nella Parte IV della Costituzione indiana a tutela dei diritti socio-economici dei cittadini possa avvenire a discapito dei diritti fondamentali dell’uomo protetti nella Parte III.
In sintesi, la Corte esclude che il diritto alla riservatezza possa flettere di fronte ad interventi pubblici finalizzati al welfare in ragione di una sorta di automatica prevalenza di un interesse statale su un diritto fondamentale dei singoli cittadini.
L’argomento non è concettualmente poi così lontano rispetto ad alcune secche di protezione che si stanno sempre più affacciando nel mondo occidentale. Il pensiero, nello specifico, va a tutte quelle iniziative, non a caso per l’appunto prevalentemente di matrice statale, che ritengono plausibile, per ragioni di tutela della collettività o per favorire il benessere sociale, incentivare il controllo dei comportamenti umani (videosorveglianza massiva, data retention, istallazione di scatole nere in auto) o delle condizioni personali (diffusione di strumenti di autenticazione biometrica o di sensori medicali sottocutanei) a detrimento del diritto personale alla privacy.
Torna in mente “sharing is caring“, uno dei motti di “Il cerchio”[31] il libro di Dave Eggers in cui la totale ed integrale condivisione di ogni informazione personale conduceva, in una società futuribile, ad un meraviglioso pregresso delle scienze, ad una maggiore tutela collettiva e ad un generale miglioramento del mondo intero, finendo, però, nel tempo, col trasformare le democrazie in un unico regime totalitario globale.
Ecco, la Corte Suprema indiana interviene là dove noi occidentali scriviamo dei romanzi distopici: la lungimiranza è vero grande pregio di questa sentenza.
[1]Cfr. Corte Suprema indiana, 24 agosto 2017.
[2] Testualmente: «The right to privacy is protected as an intrinsic part of the right to life and personal liberty under Article 21 and as a part of the freedoms guaranteed by Part III of the Constitution», cfr. Order of the Court in calce alla sentenza.
[3] Testualmente: «No person shall be deprived of his life or personal liberty except according to procedure established by law»; cfr. il testo integrale della Costituzione Indiana.
[4] D. Amirante – C. Decaro – E. Pföstl (a cura di), La Costituzione dell’Unione indiana. Profili introdottivi, Torino, 2013, 150-154.
[5] S. Ceccanti, Il sistema costituzionale indiano, in https://stefanoceccanti.wordpress.com, 7 aprile 2016.
[6] G. Ajani – B. Pasa, Diritto comparato Casi e materiali, Torino, 2013, 564.
[7] D. Amirante e altri, op. cit., 155-156.
[8] Maggiori informazioni in https://uidai.gov.in.
[9] Cfr. l’interim order.
[10] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 6-7.
[11] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 7.
[12] L’art. 19 della Costituzione indiana protegge una serie di libertà fondamentali tra cui la libertà di espressione, di assemblea, di circolazione, di residenza, di praticare una professione, un’occupazione, un commercio o degli affari.
[13] L’art. 20, comma 3, della Costituzione indiana prevede che: «No person accused of any offence shall be compelled to be a witness against himself».
[14] Sul rapporto tra IV Emendamento americano e privacy (rectius, legittima aspettativa di privacy) cfr. la sentenza della Corte Suprema americana Kats v. US del 1967 nonché la più recente sentenza della Corte Suprema americana US v. Jones, con particolare riferimento alla concurring opinion del Giudice Sotomayor. Per un commento a quest’ultima, M.A. Senor, Tecnologie nuove, diritti vecchi (ma buoni, se applicati), in www.medialaws.eu, 10 febbraio 2012.
[15] Per un approfondimento del concetto di privacy informazionale in Italia, U. Pagallo, Il diritto nell’età dell’informazione, Torino, 2014, Cap. X.
[16] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 26.
[17] J. S. Mill, On Liberty, Batoche Books, 1859.
[18] S. Warren – L. Brandeis, The Right to Privacy, in Harvard Law Review, Vol.4, No. 5, 1890, 193-220.
[19] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 34.
[20] Wolf v. Colorado, 338 U.S. 25 (1949).
[21] Cfr. la bellissima infografica della giurisprudenza della Corte Suprema indiana in
[22] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 109 ss.
[23] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 210
[24] Cfr. sent, 24 agosto 2017, 242 ss.
[25] Uno dei più bei passaggi della sentenza in commento, a parere di chi scrive, è a pagina 243 e recita: «Privacy is an intrinsic recognition of heterogeneity, of the right of the individual to be different and to stand against the tide of conformity in creating a zone of solitude».
[26] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 246 ss.
[27] C. P. Moniodis, Moving from Nixon to NASA: Privacy ‘s Second Strand- A Right to Informational Privacy, in Yale Journal of Law and Technology Vol.15 (1), 2012, 139-168.
[28] Y. McDermott, Conceptualizing the right to data protection in an era of Big Data, in Big Data and Society January-June, 2017.
[29] D. J. Solove, Understanding Privacy, Harvard University Press, 2009.
[30] Cfr. sent. 24 agosto 2017, 215 ss.
[31] D. Eggers, Il cerchio, Mondadori, 2014.